Corriere delle Alpi -

Bertolini: Il mio Dna da allenatrice”

Milena Bertolini ex allenatrice della nazionale Italiana di calcio femminile, riavvolgiamo il nastro della sua lunga carriera dalle panchine al campo da gioco e partiamo da quando era bambina e dava i primi calci al pallone, cosa ricorda di quei momenti?
«Mi ricordo un’infanzia bella, vissuta all’aria aperta nelle mie campagne emiliane, dove sono nata, trascorsa giocando per ore ed ore a calcio assieme agli amichetti e ai vicini di casa. Ero l’unica bambina, ma questo non mi pesava, anzi passavo tutto il tempo a divertirmi coltivando quella che era già la mia più grande passione »
Cosa è significato essere una calciatrice negli anni’80 ?
«Sono sempre stata mossa da una passione e da un amore così grande che, mi creda, i pregiudizi e le battutine li vivevo sullo sfondo. Certo non era piacevole sentirsi dire le solite frasi come: “maschiaccio” , “donna mancata” o “vai a fare i piatti” , ma le difficoltà più grandi per le calciatrici della mia generazione erano date da ostacoli ben più alti, come le prospettive legate al futuro e il doversi ritrovare a destreggiarsi tra il lavoro e la carriera sportiva, una condizione che, purtroppo, vivono ancora tante atlete in alcuni sport. Quello era davvero un aspetto complesso con cui confrontarsi» .
Come riusciva a conciliare lavoro e carriera calcistica ?
«È stato faticoso, anche se io non sentivo o non percepivo, diciamo così, eccessiva stanchezza perché ero mossa da questa voglia inarrestabile di giocare, perciò prendere la macchina e macinare chilometri per andare ad allenarmi alle 8 di sera non mi pesava. È chiaro, però, che per fare questo tipo di vita dovevi prendere delle scelte non facili a partire dalla ricerca di un lavoro adatto. Io mi sono buttata nello sport perché mi piaceva e mi permetteva di avere tempo per la mia carriera: ho allenato i bambini e le bambine facendo scuola calcio, ho fatto la commentatrice in una tv privata a Reggio Emilia, sono stata assessore allo sport nel comune di Correggio, la mia città, tutte attività elastiche dal punto di vista del potersi ritagliare spazio e che mi piacevano. Per altre mie colleghe, invece, non è stato così e davanti alla sicurezza di un impiego fisso si sono trovate costrette a lasciare la carriera ad alti livello optando per campionati minori o addirittura smettendo»
Si può dire che il passaggio da giocatrice ad allenatrice sia stato consequenziale ?
«Ho sempre lavorato mettendo al primo posto il piacere di fare una determinata attività e non l’aspetto economico. Va da sé, quindi, che l’idea di diventare un’allenatrice sia sempre stata una parte naturale di me fin da adolescente. Ho studiato Scienze motorie, mi sono specializzata e pensi che quando ero calciatrice e mi trovavo a giocare in squadre lontane da casa, come Pisa, Verona, Sassari, magari facevo uno o due allenamenti con il gruppo, per via della distanza, e poi mi confezionavo le sessioni su misura. Anzi, mi scrivevo anche i report (ride). Sono sempre stata un’allenatrice».
Allenatrice, voglio partire proprio da questa parola perché lei ha fatto anche un’importante battaglia per un corretto uso del lessico all’interno del calcio, quanto è importante potersi appropriare dei termini e declinarli al femminile ?
«Ho sempre pensato che fosse importante perché le parole definiscono i pensieri, perciò se continui a usare determinati termini alimenti un certo tipo di retaggio. Per esempio una volta era raro se non impensabile dire “sindaca” , mentre adesso è la normalità. Ci sono parole che fanno fatica a entrare nel lessico comune come portiera, uno pensa a quella della macchina, ma è solo inserendo termini e creandone anche nuovi che possiamo definire un pensiero corretto e inclusivo. Penso sempre a marcatura a uomo, una volta sentivo le mie calciatrici urlare “uomo” e allora dissi: “Scusate, ma perché dite così, io non vedo uomini in campo” . Alcune di loro rimasero un attimo spiazzate poi ne parlammo e capimmo che andava trovato un modo diverso per rinominare l’azione e io avevo adottato “marcatura individuale” , perché mi creda passa tutto da qui. Il calcio è ancora fortemente arroccato nella visione di uno sport prettamente ad appannaggio maschile, ma se non partiamo dalle basi e quindi, anche da un corretto uso del linguaggio, certi pregiudizi e certi schemi non cambieranno mai».
E’ stata la più longeva allenatrice della nazionale e con lei le azzurre sono tornate ai Mondiali dopo 20 anni in quell’indimenticabile Francia 2019
«Sono stati 6 anni bellissimi, fatti di gioie e dolori. Abbiamo vissuto momenti felici e anche tante difficoltà, ma questo fa parte del gioco. Quello che abbiamo raggiunto nel 2019 è stato un traguardo che finalmente ha riconosciuto non solo il mio lavoro e quello delle ragazze, ma di tutti quelli che ci hanno preceduto sia in panchina sia in campo. È da lì che siamo arrivati al professionismo ed è da quel momento che siamo riusciti a ottenere un risultato che avevamo inseguito e per il quale c’eravamo battuti di generazione in generazione».
È appena ricominciata la serie A e da esperta le chiedo quanto è cresciuto il calcio in questi anni
«È cresciuto, ma la strada è ancora lunga. Abbiamo 42mila tesserate contro i numeri duplicati di Inghilterra e Germania, per questo dobbiamo continuare ad andare avanti sostenendo sempre di più la crescita delle atlete. Le squadre si sono rinforzate molto, i campionati saranno presto riformati allargando il numero di partecipanti segno di una crescita importante. Mi aspetto molto da questo campionato, abbiamo tante squadre attrezzate e preparate e dico una cosa: occhio all’Inter, ha fatto un percorso importante, ha rafforzato la rosa e si candida a essere una favorita allo scudetto». —
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