Corriere delle Alpi -

La lezione di Sacchi

Arrigo Sacchi, lei è stato uno degli allenatori che ha cambiato il calcio, ma sbaglio se dico che sessant’anni fa rischiò di diventare imprenditore?
«Ho lavorato sedici anni in azienda, mio padre aveva due calzaturifici a Fusignano».
Come si chiamava il papà?
«Sacchi Augusto, lo dico alla militare, perché era un soldato, base Ferrara, ma veniva da Mandello del Lario, vicino a dove ci allenavamo con il Milan».
Calciatore?
«Sì nella Portuense e nella Recanatese, poi alla Spal con Mazza allenatore. A 45, 46 anni si ritrovò a doversi inventare un mestiere ed entrò nel calzaturiero. Un giorno gli dissi: “Papà non hai amici”. Rispose: “Sono tutti morti”. Si riferiva ai suoi commilitoni, in guerra fu una strage, di 100 se ne salvò uno: lui».
A che età cominciò in fabbrica?
«Avevo 14 anni, ancora studiavo. Mio padre aveva stabilito che un mese l’anno, durante l’estate, lo dovessi passare con lui. Dopo il primo anno dissi che ci sarei tornato, ma non per incollare le suole, volevo faticare. Mi accontentarono».
Quando cominciò a occuparsi veramente dell’azienda?
«Alla morte di mio fratello Gilberto, una persona preziosa, in grado di entrare in confidenza con tutti. Un incidente, a due passi da casa. Due anni dopo anche mio padre si ammalò, aveva il fegato a pezzi».
E toccò a lei tirare avanti la baracca.
«Andai a trovare mio padre in ospedale. Mi disse poche parole ma chiare: “Ricordati che quando prendi qualcuno devi sapere per filo e per segno come si è comportato nella vita. Basta che uno solo non sia affidabile e l’intera fabbrica ne risente”».
Affidabilità è una delle sue parole chiave.
« L’insegnamento di mio padre mi è servito anche nel calcio. Ho sempre cercato calciatori e uomini affidabili. Li mandavo a vedere sul campo, mi informavo verificando se quel che si diceva di loro fosse vero, poi ci parlavo. Ho sempre cercato gente che avesse conoscenza. Quando arrivai al Rimini e poi al Parma mandai via il 50% dei calciatori, sostituendoli con i giovani che avevo allenato a Cesena, diventati campioni d’Italia Primavera».
È partito da lontano, facendo l’allenatore dalla Terza categoria alla Serie A, tra lo scetticismo generale.
«Dovevo prendere il Rimini in B, mi ero già messo d’accordo con il presidente. Per non retrocedere avrebbero dovuto fare un punto in tre partite. Invece non ci riuscirono. Decisi di rimanere anche in serie C, ma nel frattempo cominciarono a girare diverse candidature. “Stadio”, il giornale sportivo di Emilia e Toscana, scrisse testualmente: “Si parla di un certo Arrigo Sacchi. Per favore non facciamo certi nomi”. E questa fu solo l’accoglienza».
Su La Gazzetta ha esaltato quattro allenatori: Gasperini, Vanoli, Conte e Italiano, senza dimenticare Pecchia. Ha scritto che vedendo Torino-Atalanta e Napoli-Bologna credeva di vedere la Premier o la Liga. Si è dimenticato di Thiago Motta?
«No. Motta è molto bravo, e lo dico perché sono andato a vedere i suoi allenamenti, a Bologna. Ci sono, però, due questioni da considerare. La prima: Thiago sta affrontando queste prime giornate con molti giovani non ancora del tutto formati ed è possibile che i giovani, a volte, ritengano facili partite o situazioni che non lo sono. La seconda: la Juventus, storicamente parlando, non ha mai toccato vette eccelse a livello di gioco. C’è da vedere, dunque, se questa nuova dirigenza, che io non conosco, gli consentirà di lavorare alla sua maniera. In passato la Juve, a parte qualche eccezione con Ancelotti, Sarri e Lippi, ha vinto per la sua potenza economica e politica, non per il gioco».
Il suo Milan è partito male.
«Ci vuole pazienza, prima di dare giudizi bisogna aspettare. Quindi dico: lasciamo lavorare Fonseca. Quando è stato in Ucraina produceva buon calcio, vedevo le partite in Coppa dei Campioni e mi ricordo la sua squadra. Roma non fa testo, è un posto troppo difficile, chiunque non va bene».
Le fa impressione che uno come Sarri non alleni?
«È una bestemmia».
Chi sono i bestemmiatori?
«Le società che non credono in lui. Molto sta cambiando in Italia e l’ho detto parlando di Atalanta, Torino, Bologna, Napoli, la stessa Juve, ma ci sono anche quelli che resistono o tornano indietro. A ogni grande squadra corrisponde un grande club. Mi chiedo. I direttori sportivi sono bravi? Alcuni sì, ma sono minoranza. Io, ovunque sia stato, volevo fare la squadra, rispettando le esigenze economiche».
Anche al Milan?
«Le racconto questa. Arrivo e chiedo Ancelotti. Berlusconi che, solo pochi mesi prima era stato accolto a braccia aperte dalla stampa e soprannominato Sua Emittenza, stava diventando Sua perdenza perché con i cinque nazionali, presi per migliorare il quarto posto della stagione precedente, era arrivato quinto. Se ne dispiaceva, ma di fronte alla mia richiesta per Carlo resisteva».
E perché?
«A Roma dicevano che era cotto, aveva il ginocchio sinistro con un handicap del 20 per cento e anche il destro non era apposto. Un venerdì, in chiusura di mercato, all’una di notte mi chiama Galliani e mi dice: “Io con la Roma avrei fatto, sta a te convincere il presidente”. Lo cerco e all’una e mezza riesco a parlargli. Mi fa: “No, Arrigo. Ci facciamo ridere dietro”. Allora tento il tutto per tutto: “Se mi prende Ancelotti, vinco il campionato”. E lui, brillante come spesso gli capitava: “Agli ordini”».
Non ne fu pentito.
«No, ma dopo un mese obiettò: “Ha preso un regista che non conosce la sua musica”. Dissi a Carlo: “Devi prendere lezioni private. D’ora in avanti vieni alle 13.30 e fino alle 15, quando cominciamo l’allenamento con gli altri, facciamo le prove”. Funzionò, ma Carlo era già un grande. Pensate a quanto ha vinto dopo». —
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