Caffè chiaro, aneto, miso, zafferano e carote “migranti”. È così che Davide Oldani, lo chef che ha dato forma al desiderio con le sue mani, ha celebrato la vittoria di Jannik Sinner a Flushing Meadows. Ogni piatto una poesia, ogni ingrediente una storia. Non c’è solo creatività nei suoi gesti, ma una filosofia di vita che traspare da ogni dettaglio, dai fornelli alla sala. Per lui, il desiderio è la materia di cui sono fatti i sogni, quelli che si costruiscono passo dopo passo, come il suo cammino in cucina.
Aveva sedici anni quando incontrò Gualtiero Marchesi, maestro di un’arte che non conosceva confini. Era ancora un ragazzo, ma già percepiva quel richiamo: il lavoro nelle cucine di Marchesi non era solo formazione, era educazione al sogno. Il maestro gli insegnò a guardare oltre il piatto, a cercare il significato nascosto dietro a ogni ingrediente. Anni di apprendimento, prima come apprendista poi come chef, lo portarono a confrontarsi con i grandi nomi: Albert Roux a Londra, Alain Ducasse a Montecarlo, Pierre Hermé a Parigi. Eppure, ogni volta che metteva un piede fuori, sentiva che qualcosa gli sfuggiva, qualcosa di essenziale: le sue radici.
Un filo esile, che lo riportava sempre lì, a Milano. Quando nel 2003 si presentò l’occasione di rilevare una trattoria vicino a Cornaredo, non ci pensò due volte. Tornare alle origini, riconnettersi con il territorio. Non era solo una questione di cucina, ma di vita. E da allora, ogni piatto del suo ristorante D’O, Due stelle Michelin, porta con sé il profumo e il sapore dei sogni realizzati.
Oldani, lei ha dovuto abbandonare lo sport, a causa di un infortunio. Quanto ha influito il passato da sportivo nel percorso successivo?
«Giocavo a calcio e mi stavo dedicando seriamente allo sport, ma poi a scuola ho avuto un brutto infortunio alla tibia che mi ha costretto a cambiare strada. In quel momento ho iniziato a dedicarmi ad altro, iniziando a lavorare. Quell’incidente ha decisamente indirizzato il mio percorso verso la cucina».
Negli ultimi anni ha smesso di praticare sport in modo competitivo, ma continua a mantenersi attivo?
«Qualche anno fa andavo in bici, ma ora non faccio più sport in senso stretto, anche se continuo a muovermi. Sono in una fase della mia vita in cui ho abbandonato la fase semi-professionistica e anche quella amatoriale seria, ma sono in contatto con ciò che il mio corpo mi permette di fare, che è sano movimento per restare in forma».
Parliamo del legame tra sport e cibo: lei ha sempre sottolineato come questo binomio sia fondamentale.
«C’è sempre uno sliding doors nella vita di uno sportivo, con il rischio del rebound, ma io ero talmente giovane quando ho smesso che non ho vissuto quel tipo di esperienza. Il legame tra sport e cibo è qualcosa di naturale per me: equilibrio, precisione e rispetto del corpo sono concetti che applico anche nella mia cucina».
Ha avuto l’opportunità di essere coinvolto nelle Olimpiadi di Rio 2016 e di organizzare l’esperienza per Tokyo. Ci racconta come è nata la collaborazione con il Coni e cosa ha significato partecipare a questi eventi?
«Tutto è iniziato nel 2015, dopo Expo, quando ho parlato con Giovanni Malagò, presidente del Coni. Gli piacque il mio approccio al cibo e il progetto di Casa Italia si sposava perfettamente con la mia filosofia di Cucina Pop. Il lavoro è stato lungo, durato circa un anno e mezzo, e si è concentrato sulla valorizzazione dei migliori prodotti italiani, integrati con la tecnica francese, per creare quello che chiamo “Ensemble”: ingredienti di stagione trattati con delicatezza in un gioco di squadra e armonie».
Come ha vissuto l’esperienza delle Olimpiadi di Parigi, considerando il suo legame con la Francia e l’uso dei prodotti italiani per la creazione del famoso “Ensemble”?
«È stata un’esperienza bellissima. Conoscendo già la Francia e avendo studiato lì, è stato più facile. Abbiamo lavorato con prodotti esportati dall’Italia e tutto è andato come doveva per creare l’Ensemble, cioè ingredienti di stagione trattati con delicatezza e gusto, in un perfetto gioco di squadra».
Ha mai pensato di collaborare con il mondo del calcio, essendo un tifoso interista?
«No, sono un grande tifoso dell’Inter, ma non ho mai collaborato. Seguo la squadra, ma la mia passione per lo sport si esprime in altri modi».
Lei è noto per le sue collaborazioni con il mondo dell’impresa. Qual è il legame tra il suo approccio imprenditoriale e quello artigianale che applica alla sua cucina ?
«Sono un artigiano intraprendente più che un imprenditore. Quello che lega tutta la mia attività è il desiderio, che rappresenta il fil rouge delle mie azioni. Prima desideravo aprire un ristorante, poi desideravo ottenere la massima qualità, e ogni desiderio mi ha spinto a fare un passo in avanti. Questa è la mia motivazione principale».
Nel suo libro “Visioni Pop 4.0” racconta il design del ristorante e la cura nei dettagli. Come nasce l’idea di legare il concetto di cucina pop alla filosofia del design?
«La mia cucina è un mix di artigianalità e innovazione, e questo si riflette anche nel design del ristorante. Ogni elemento, dagli arredi ai tavoli, è pensato per creare un’esperienza armonica e coerente con la filosofia della Cucina Pop. Il design non è solo estetica, ma parte integrante dell’esperienza culinaria».
Lei è un esempio di imprenditorialità e collaborazione con il mondo finanziario. Come è nata la partnership con Banca Generali e come ha influenzato la gestione del suo business?
«Non è stato un caso. La banca si è proposta attraverso un giovane professionista che ci ha dimostrato di avere un approccio orientato al supporto del nostro business. Ho lavorato con loro sempre di più e oggi siamo ancora partner grazie a una collaborazione che dura da circa 10 anni».
Quali sono i suoi prossimi progetti per il futuro, e su cosa intende concentrarsi?
«A settembre-ottobre riprenderò a pieno ritmo, concentrandomi sulla nuova panetteria aperta in piazzetta e sul Ristorante Olmo. Voglio continuare ad ampliare l’attività, ma allo stesso tempo far crescere i miei collaboratori». —